Il palazzo d’inverno – Eva Stachniak

 

Varvara Nikolaevna ha sedici anni quando diventa una “protetta della Corona”, una di quelle ragazze, orfane o abbandonate, al servizio dell’imperatrice Elisabetta Petrovna, la figlia minore di Pietro il Grande, salita al trono di Russia nel 1741. Orfana di un legatore polacco, svelta e già priva di tutte le illusioni proprie dell’adolescenza, abbastanza carina da doversi difendere da mille attenzioni nei corridoi del Palazzo d’Inverno, Varvara Nikolaevna rimarrebbe una delle innumerevoli e anonime ragazze del guardaroba imperiale, una goffa cucitrice vessata dalla capocameriera di corte madame Kluge, se non si imbattesse un giorno nel conte Bestuzev. Cancelliere di Russia e, secondo le voci ricorrenti tra le cucitrici, uno degli uomini che riscaldano spesso il letto di Elisabetta Petrovna, il conte cerca di non lasciarsi sfuggire nulla di ciò che accade nella residenza imperiale. Nella giovane Nikolaevna scorge una possibile portatrice della “verità dei sussurri “, la servetta capace di aprire cassetti nascosti, di staccare e ripristinare abilmente la ceralacca dalle lettere, di riconoscere all’istante libri cavi, bauli con doppi fondi, meandri di corridoi segreti. Dopo averla istruita all’arte di origliare senza farsi scoprire, le affida perciò il più delicato dei compiti: tenere d’occhio la principessa Sofia Federica Augusta Anhalt-Zerbst, la giovanissima tedesca scelta da Elisabetta come consorte dell’orfano di sua sorella, Karl Peter Ulrich, duca di Holstein, il quindicenne nominato principe ereditario…

Indubbiamente interessante dal punto di vista storico questo romanzo ci permette di conoscere un periodo della storia russa che non si studia sui libri di scuola. Tutti abbiamo sentito parlare, se non studiato, Caterina la Grande, zarina di Russia a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento.

“Ecco cosa significa essere Imperatrice. Prendi quello che vuoi, scarti ciò che non ti serve più. Vivi in un mondo che ti permette di fare quello che ti va, perchè in questo mondo vite e destini dipendono da un tuo capriccio.”

Questo romanzo narra l’ascesa al trono di Caterina ed è contemporaneamente la storia di un’amicizia tra due donne, anche se la protagonista del romanzo Varvara Nikolaevna non è realmente esistita, l’autrice si è basata su delle biografie lette oltre che sulle lettere scritte dalla zarina per ricostruire l’epoca storica e le vicende narrate.

La prima parte del romanzo è molto avvincente e si legge velocemente, la narrazione di come venivano scelte le spie di palazzo è deisamente interessante, la protagonista li descrive in modo dettagliato e il lettore si sente coinvolto negli intrighi di palazzo. Poi man mano che le vicende si susseguono, la narrazione rallenta e in certi momenti c’è un po’ di noia che affiora, c’è un po’ di prolissità che avrebbe potuto essere evitata snellendoì le vicende e rendendo più godibile il susseguirsi degli amori, delle vicende politiche e in parte degli usi e costumi dell’epoca.

In questo romanzo inoltre prevalgono le figure femminili, Caterina, Varvara e Elisabetta insieme ad altre figure minori come la figlia di Varvara, Masa,ecc. Gli uomini sono rappresentati dal granduca Pietro (una personalità decisamente particolare e distubata) e gli amori di Caterina, il cancelliere Bestuzev, uomo scaltro e soprattutto abituato agli intrighi di palazzo.

La protagonista è una donna coraggiosa, che non si da per vinta e che crede fermamente nell’amicizia con la granduchessa, provando per lei un sincero affetto e non rendendosi conto che pur apprezzando il suo zelo, Caterina rimane pur sempre la granduchessa o la zarina mentre Varvara non è altro che una subalterna,una servitrice al suo servizio.

Se piacciono i romanzi storici e in particolare la storia della Russia questo romanzo va sicuramente letto, Avrete modo di conoscere i palazzi che fanno da cornice alla storia, soprattutto il palazzo d’inverno nel lavoro svolto dall’architetto Rastrelli per portarne a compimento la realizzazzione, la descrizione di abiti sontuosi, dei cibi…uno spaccato di vita del Settecento che interesserà tutti coloro che amano la storia nel suo complesso.

 

Elisabetta Cametti – I guardiani della storia

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Trama:

Katherine Sinclaire è la brillantissima direttrice generale della 9Sense Publishing, una delle più potenti case editrici a livello mondiale. Un giorno viene convocata d’urgenza da Bruce Aron, l’amministratore delegato del gruppo, ma appena entra nel suo ufficio lo trova morto. Un suicidio, a quanto pare. Prima di morire però Bruce ha voluto lasciarle un indizio, un messaggio cifrato all’interno di una chiavetta che Katherine è determinata a decriptare. È l’inizio di una serie di avvenimenti sempre più inquietanti che la condurranno al centro di un cerimoniale oscuro e millenario appartenuto a una delle civiltà più affascinanti della storia: gli Etruschi. Katherine scoprirà che la società per cui lavora è coinvolta in attività sospette, correlate a importanti ritrovamenti archeologici. Ma scoprirà anche l’esistenza di sacerdoti che proteggono e tramandano una dottrina occulta…

Commento:

I guardiani della storia è l’opera d’esordio di Elisabetta Cametti, non disdegno affatto cimentarmi nella lettura di autori italiani anche se in questo caso devo dire che aspettandomi un thriller mi sono alla fine ritrovato alla prese con una storia molto più vicina al mistery o al romanzo d’avventura.

La protagonista del romanzo (un tomino di 600 pagine a cui una discreta sforbiciata male non avrebbe probabilmente fatto) è tale Katherine Sinclaire, ci viene descritta come una bionda piuttosto avvenente (era il minimo), estremamente combattiva e indipendente (al primo mezzo sorriso del coprotagonista sembra però già pronta a cadere come una pera matura), dorme quattro ore per notte (in questo caso mi sfugge il titolo di merito) e adora gli animali (lei di certo, l’autrice del libro forse meno visto che le pagine più brutte, assolutamente gratuite e irricevibili, riguardano l’uccisione di uno di questi).
Insomma la classica donna tosta, quella che cammina nelle grotte con le scarpe da passeggio e che se cade da cavallo si rialza in un nanosecondo al grido di “tanto dovevo scendere!”.
La Sinclaire dirige una delle più potenti case editrici mondiali ma ad un certo punto si trova a dover affrontare il problema del suicidio dell’amministratore delegato della sua azienda, questo la porterà a dover in qualche modo ridiscutere un pò tutta la sua vita professionale e non, infatti solo così riuscirà ad arrivare alla verità.
Al fianco della Sinclaire si muove Jethro Blake (vi raccomando i nomi dei protagonisti di questo libro, siamo a livelli di uno scontato siderale), tuttologo di chiara fama, uomo da bosco e da riviera, chiamato da Bruce Aron (l’amministratore delegato di cui sopra) per affiancare Katherine (e lui decide subito di affiancarla alla lettera).

Come detto I guardiani della storia viene descritto come un thriller ma se nella prima parte potremmo definirlo una sorta di pseudo thriller aziendale dove la protagonista cerca di trovare una relazione fra il suicidio del suo capo e gli sconvolgimenti all’interno della sua casa editrice nella seconda c’è una brusca virata: entrano in scena gli Etruschi con tutto il loro carico di fascino e il romanzo subisce una metamorfosi ripiegando decisamente verso il mistery.
Raccordare queste due diverse anime che contraddistinguono I guardiani della storia finisce però col risultare un pò indigesto per l’autrice e di conseguenza per il lettore.
E anche l’eccessivo indugiare dapprima nelle controversie aziendali e poi nei risvolti della civiltà etrusca non fa che appesantire una storia che non ha nella scorrevolezza (pure in virtù delle 600 pagine) uno dei suoi punti di forza.
Ad ogni modo per chi vuole saperne di più sugli etruschi (non solo a livello di vita e opere) la seconda parte è ideale.
Non manca, come detto, la storia d’amore (non se ne vedeva una più scontata dai tempi di Guardia del corpo con Kevin Costner e Whitney Houston) e quel che mi domando è:
come può essere che solo nei libri si trovano questi uomini e donne tutti di un pezzo, sferzati duramente da amori giovanili, che proprio per questo si vantano di essere refrattari ai sentimenti, ma che puntualmente sanno riconoscere così a prima vista il partner giusto da sciogliersi all’istante come un biscotto inzupposo dentro al cappuccino?

In definitiva direi che I guardiani della storia è opera leggibile ma niente di più, fortemente penalizzata da protagonisti che alla fine della fiera non sono nè carne nè pesce e da personaggi di contorno talmente inutili che l’autrice stessa sembra esserne insoddisfatta, qualcuno lo elimina senza un vero perchè, qualcun’altro se lo perde proprio per strada, insomma una sensazione di sciatto che non fa ben sperare per le sue opere successive.
Sì perchè dopo quest’esordio Cametti si è prodotta in altri quattro lavori un pò tutti annunciati con la fanfara…magari ci tornerò su, vedremo.

Antonio Manzini – Pista nera

 

Trama:

Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d’Aosta, viene rinvenuto un cadavere. Sul corpo è passato un cingolato in uso per spianare la neve, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura e un macabro segno che non si è trattato di un incidente ma di un delitto. La vittima si chiama Leone Miccichè. È un catanese, di famiglia di imprenditori vinicoli, venuto tra le cime e i ghiacciai ad aprire una lussuosa attività turistica, insieme alla moglie Luisa Pec, un’intelligente bellezza del luogo che spicca tra le tante che stuzzicano i facili appetiti del vicequestore. Davanti al quale si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, il delitto passionale. Quello di Schiavone è stato un trasferimento punitivo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. Però ha talento. Mette un tassello dietro l’altro nell’enigma dell’inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. Non è un brav’uomo ma non si può non parteggiare per lui, forse per la sua vigorosa antipatia verso i luoghi comuni che ci circondano, forse perché è l’unico baluardo contro il male peggiore, la morte per mano omicida (“in natura la morte non ha colpe”), o forse per qualche altro motivo che chiude in fondo al cuore.

Commento:

In Pista Nera di Antonio Manzini fa il suo esordio il personaggio di Rocco Schiavone,a mio parere uno dei più controversi tra quelli che il noir italiano ha saputo esprimere negli ultimi anni.

Schiavone è un vice questore (detesta essere chiamato commissario e non ne fa mistero) romano trapiantato in Val d’Aosta per motivi disciplinari e assolutamente incapace di adattarsi alla nuova realtà in cui forzatamente si trova a dover operare.

D’altronde non è difficile comprenderlo, Schiavone è originario del quartiere Trastevere e ha una casa a Monteverde vecchio (nell’ordine,probabilmente, il posto più bello dove nascere a Roma e quello migliore dove vivere) per cui le montagne valdostane gli stanno necessariamente strette.

Per giunta lui sembra impegnarsi decisamente poco per riuscire ad integrarsi, ad esempio si ostina pervicacemente a camminare con le Clarks che puntualmente affondano nella neve e proprio non riesca ad instaurare un rapporto decente con nessuno o quasi della squadra che lo affianca.

L’obiettivo di Schiavone, assolutamente dichiarato, sarebbe quello di vivacchiare in commissariato tra una sigaretta scroccata e qualche sporadica canna ma ecco che un delitto appare all’orizzonte portandosi dietro tutta quella sequela infinita di rogne e rotture di scatole immancabili in queste circostanze.

Allora il buon Rocco mette in mostra tutto il peggior campionario che la romanità possa offrire, volgarità, prese in giro a volte pesanti, battute da trivio e per non farsi proprio mancare nulla i metodi che utilizza per interrogare i possibili sospettati non sono dei più ortodossi (Schiavone ha la “cinquina facile” e spesso e volentieri, come dicono a Bolzano, gli parte l’embolo).

Se a tutto ciò aggiungiamo comportamenti non esattamente irreprensibili, partite di droga sequestrate in posti di blocco e che non finiscono propriamente dove dovrebbero ci rendiamo facilmente conto di come per riuscire ad apprezzare Schiavone il lettore ci si debba mettere d’impegno e non è nemmeno detto che basti.

Però, come in tutti i noir che si rispettino c’è un però, Rocco Schiavone ha un suo senso del dovere, una morale se vogliamo tagliata con l’accetta ma che comunque lo risolleva, soprattutto possiede una capacità di commuoversi sorprendente, si abbandona ai ricordi quasi celebrandoli ed è difficile non rimanere colpiti dalla scoperta che dietro la scorza dello “sborone” incallito si cela una personcina in grado di esprimere concetti tutto sommato abbastanza profondi.

Cos’altro aggiungere, la trama sta in piedi decorosamente, il finale non è di quelli scontatissimi, i personaggi di contorno reggono la scena con dignità, in una parola Manzini si lascia leggere piacevolmente e si giunge all’epilogo senza affanni.

Nota stonata, le pubblicità occulte di cui il libro è oggettivamente infarcito, in particolare due note marche di sigarette citate in continuazione senza un vero perché (o magari il perché è facilmente comprensibile ma non bisognerebbe mai eccedere).

Nel complesso consigliabile, Manzini nel panorama noir italiano certamente non sfigura sempre che non gli si faccia in qualche modo del male con paragoni altisonanti e ingenerosi ma in questo purtroppo siamo maestri inappuntabili.