La regina Margot – Alexandre Dumas

La regina Margot

Il 18 agosto 1572 si celebra il matrimonio tra Margherita di Valois, figlia di un re cattolico, e Enrico di Navarra capo degli Ugonotti.
Con il matrimonio si spera di far cessare la guerra tra i due opposti schieramenti religiosi, sembra che ciò avvenga ma, la riconciliazione sarà breve: il 24 agosto, la famosa notte di San Bartolomeo, quasi tutti gli Ugonotti vengono uccisi per ordine di Carlo IX e di sua madre Caterina de Medici che trama nell’ombra contro Enrico di Navarra che vede come colui che regnerà in Francia scalzando i suoi 3 figli maschi.
Alle vicende storiche Dumas intreccia una storia d’amore tra la bella Margot (il diminuitivo di Margherita) e il conte de La Mole destinato a un tragico finale.

Raccontare la trama per intero del romanzo non è possibile, almeno in senso dell’avvicendamento dei fatti, perchè Dumas crea una girandola di avvenimenti che si susseguono a un ritmo incalzante del quale non si riesce a tenere il passo.
Tra intrighi, complotti, scambi di persona, assassinii, avvelenamenti, Dumas sa perfettamente utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione calibrandoli in modo tale da rendere la narrazione avvincente e senza momenti di sosta per il lettore.
L’impatto iniziale potrebbe indurre in inganno il lettore che, preso da tanti personaggi e dalla narrazione di un massacro, si potrebbe sentire sperduto da non comprendere bene cosa stia realmente accadendo. Man mano che si procede però la vicenda inizia a sembrare più chiara.
Anche i personaggi sono tutti funzionali per lo svolgimento delle vicende, anche i meno importanti rivestono un loro ruolo fondamentale. Non manca neanche il lato fantastico con la presenza di un profumiere, alchimista ed esperto di veleni, sicuramente il personaggio più interessante del romanzo.
Un romanzo che riscosse molto successo all’epoca, un antesignano dei moderni best-sellers attuali, un’opera che molti giovani autori dovrebbero leggere per comprendere come si scrive un romanzo di successo, scorrevole e avvincente sì, ma mai banale.

VOTO 9/10

L’arcano della papessa – Luca Filippi

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Tiberio di Castro, medico, viene invitato dal cardinale Alessandro Farnese a indagare sulla morte di un prete suo amico
Nonostante non rimanga sorpreso di scoprire che il prete, che si chiamava Lucio, fosse, in realtà, suo fratello, egli inizia le ricerche per scoprire la verità.
Decide così d’indagare interrogando le tre donne più potenti di Roma, in quel periodo, cioè Lucrezia Borgia, Sancia d’Aragona e Giulia Farnese in Orsini, che avevano rapporti di conoscenza con la vittima. Dai colloqui però non emerge nessun elemento utile. Sfiduciato lascia il palazzo quando un’ancella di Lucrezia Borgia lo ferma chiedendogli un appuntamento per importanti rivelazioni.
Presentatosi all’appuntamento Tiberio avrà un’esperienza sconvolgente e questo lo porterà a lasciare temporaneamente Roma per scoprire cosa è davvero accaduto a suo fratello e all’ancella.

Luca Filippi è al suo secondo romanzo storico. Scritto in modo scorrevole con uno stile narrativo ricercato e lievemente retrò, L’arcano della papessa è un romanzo che presenta una struttura narrativa equilibrata in cui non c’è un predominio di una parte rispetto alle altre.
La ricostruzione storica è ben documentata, sono particolareggiate le descrizioni di usi e costumi dell’epoca.
Interessanti le descrizioni delle scene corali, sono talmente ben descritte da renderle vivide, ti sembra di essere lì sul posto.
La storia nel suo insieme risulta anche interessante con alcuni momenti scelti per tenere desta l’attenzione del lettore.
Un buon romanzo.

VOTO: 7,5/10

Il potere del cane – Don Winslow

                                                                                                                                                                                                                                                                                                

Scritto riferendosi a fatti realmente accaduti per la quasi totalità, Il potere del cane di Don Winslow è, sicuramente, il miglior noir degli ultimi anni.

Personaggio chiave della vicenda è Art Keller, che sacrifica la sua vita per combattere il narcotraffico. Gli sono antagonisti i fratelli Barrera, Adan e Raul, insieme allo zio Miguel Angel Barrera soprannominato Tio.
I tre muovono le fila del cartello messicano per lo spaccio negli Usa. Sono coadiuvati da una serie di comprimari durante la narrazione e che rivestono tutti un ruolo ben preciso all’interno della storia. Non è possibile descrivere il ruolo di ciascun personaggio, perchè la loro opera s’intreccia durante l’arco della narrazione con quella dei protagonisti.
Il romanzo ha richiesto ben 6 anni di studio e di ricerca e gli argomenti affrontati non sono solo il narcotraffico ma i rapporti tra le federaciones messicane e la mafia italo-americana, il trattato per il libero scambio di “merci” chiamato NAFTA, il terremoto in Messico del 1985, le operazioni militari segrete.
Una storia di corruzione che vedrà implicate la Cia, i servizi segreti, il Vaticano, in un crescendo di situazioni e avvenimenti che portano il lettore a girare le pagine con molta velocità per scoprire cosa sta per accadere.
Scritto in modo avvincente, Il potere del cane è un noir che si può accomunare all’opera di James Ellroy per i temi trattati e per i personaggi mai vincenti. Come per Ellroy qui i personaggi non sono nè bianchi nè neri ma grigi. Ognuno ha qualcosa della sua vita da farsi perdonare. Rimane quindi una grande amarezza di fondo per delle vite inutili e sbagliate.

VOTO 9/10

Fiori nel fango – Hillary Jordan

Laura Chappel incontra, per la prima volta, nella primavera del 39 Henry McAllan. Ha 31 anni e si vede proiettata nel futuro come una zitella. Quando Henry le propone di spsarlo lei accetta convinta che potrà essere un buon marito e un buon padre. Henry sogna di diventare proprietario terriero e di avere una fattoria tutta sua. Riesce a realizzare questo sogno e si trasferisce con la famiglia sul Delta del Mississippi. Laura arrivata li si renderà subito conto che la vita sarà diversa da come la immaginava, non ci sono comodità, manca tutto dall’acqua a un bagno interno alla casa. Alle difficiltà giornaliere si aggiunge anche la presenza del padre di Henry, un uomo odioso e razzista fino al midollo. Sulla terra di Henry lavora una famiglia di neri a mezzadria. Florence è la levatrice della zona e accetta di diventare la domestica dei McAllan mentre il marito lavora nei campi. Hanno dei figli, il maggiore Ronsel torna dopo la fine della guerra e ben presto si scontrerà con una realtà in cui i neri sono visti alla stregua di animali o poco più. Con l’arrivo alla fattoria di Jamie, il fratello di Henry, che con il suo carattere scherzoso riesce a conquistare tutti, il precario equilibrio su cui si poggiano le relazioni tra bianchi e neri cadrà, grazie anche all’intervento del padre di Henry. Saranno una lettera e una foto a scatenare una tragedia annunciata che cambierà la vita dei protagonisti.

Avvinta come l’edera. E’ questa la definizione più esatta per indicare come mi sono sentita mentre procedevo nella lettura del romanzo. Avvalendosi di un linguaggio sciolto e fluido la Jordan mi ha letteralmente conquistata e non vedevo l’ora di prendere in mano il romanzo per proseguire nella lettura.
La Jordan qui al suo primo romanzo dimostra di avere una buona capacità descrittiva riuscendoci a far vedere con gli occhi le distese del cotone, il fiume e l’ambiente in cui sono inserite le vicende dei protagonisti.
Con mano sicura ci fa comprendere come fosse difficile per una donna, in quell’ambiente, affrancarsi dalla sottomissione al marito, nonostante il suo cervello. La parità dei diritti era un mito ancora da raggiungere nell’America del Sud negli anni del dopoguerra.
Ancora più drammatica rappresenta la situazione dei neri, il razzismo era all’ordine del giorno, non c’era giustizia, non c’era lavoro in proprio, erano degli uomini votati allo schiavismo nonostante una guerra civile combattuta in questo nome. C’era il Ku Klux Klan con i suoi incappucciati, uomini che immediatamente mettevano in riga i “disobbedienti” coloro che non si attenevano alle regole del rispetto della legge che i bianchi erano i signori e dominatori. In nome di questo si giustificava la più bieca violenza, l’uomo bianco era il dio, colui che poteva tutto.
Certo con il passare degli anni e grazie alle lotte sostenute da M. L, KIng e altri molto si è fatto ed è migliorato ma credo che ancora molto debba essere fatto perchè non esistano più differenze di razza. E’ proprio con le parole di King la Jordan si congeda dai lettori, Io non posso che sperare che il suo prossimo romanzo mi colpisca in emozioni come Fiori nel fango.

VOTO 8,5/10

The whirlwind – Transatlantic

Transatlantic The Whirlwind album cover
 

Transatlantic The Whirlwind album cover

Piccolo antefatto, un mio amico appassionato di prog non più tardi di un paio di mesi fa m’invia uno stringatissimo sms che cita testuale:”ultimo Transatlantic strepitoso”.
Ringrazio per la mini recensione, lascio il messaggio in memoria pensando che magari tornerà utile in futuro.

Domenica scorsa decido di sfruttare la mia stagionatissima tessera di Feltrinelli e di fare acquisti usufruendo dello sconto del 20% sui cd valido in quel giorno.
Mi assicuro tra gli altri Live In Poland dei Genesis con Ray Wilson che si lancia in Carpet Crawlers (diciamola tutta mancava solo la sua di versione), The Geese And The Ghost di Phillips nonché l’ultimo Icon di Wetton e Downes (disco oggettivamente fra i più irrilevanti dell’ultimo quindicennio).
Poi scorgo lì abbandonato fra gli scaffali The Whirlwind dei Transatlantic, prezzo abbordabile (circa 17 euro con sconto annesso) durata del disco un po’ meno (78 minuti sigh!) ma mi rammento dell’sms e procedo all’acquisizione con fiducia.

Entrato in auto e corroborato dal fatto di essere comunque a non più di quindici minuti da casa prendo il coraggio a quattro mani e inserisco il cd nel lettore.
Le tracce, dimenticavo, sono dodici ma i numeri romani che le contraddistinguono mi portano pericolosamente a dedurre come forse si tratti di un’unica traccia suddivisa in sezioni della durata globale di appunto 78 minuti….insomma neppure La Corazzata Potemkin di fantozziana memoria!
Il titolo del pezzo iniziale è Ouverture (originalissima scelta va riconosciuto) e dura da solo nove minuti pur tuttavia mentre lo ascolto bofonchio tra me e me “però sti Transatlantic!”.
Apertura con un grido che più omaggio a Dark Side non potrebbe essere ma il brano suona e scorre che è un piacere, Roine Stolt pare ispirato e s‘incarica delle parti vocali, Portnoy accantona propositi espansionistici e si pone al servizio di una cifra stilistica prog melodica, il brano suona assai epico e quantomeno penso “è il caso che tolga il cd dal lettore e me lo ascolti in cuffia…1-0 per i Transatlantic.
Arrivo a casa e mi organizzo per un ascolto più appropriato, ricomincio ovviamente da capo e non posso che confermare le prime impressioni sulla traccia introduttiva.
In The Wind Blew Them All Way Morse recupera il ruolo di prima voce, l’intro è stupendo (un po’ Gentle Giant) ma è il primo vero solo di Roine Stolt a confermare che la melodia in questo disco regnerà sovrana e siccome l’appetito viene mangiando…
L’apertura di On The Prow è una prima divagazione jazz ma è soprattutto Trevawas a farla da padrone per due terzi del brano tenendolo tutto sommato a galla.
In A Man Can Feel Roine Stolt riprende, per così dire, le redini vocali.
Il brano è letteralmente intriso di ammiccamenti ai Genesis a partire da un assolo chitarristico del genere “Hackett non è passato invano”.
Trattandosi di un’unica traccia si fa un po’ fatica a districarsi nell’ascolto ma Out Of Night è un momento bellissimo, la parte cantata è un po’ alla Yes perché poi in fondo i Transatlantic in questo disco sembrano proprio voler non far torto a nessuno omaggiando tutti, stupendo il solo di Stolt in chiusura, un vero gioiello melodico.
La melodia imperversa e scende giù a cascate anche nella successiva Red Colored Glasses senza però mai scendere nel zuccheroso anche se è chiaro che chi è perennemente alla ricerca di sonorità “rivoluzionarie” deve fuggire il disco come la peste bubbonica.
Evermore è forse il pezzo strumentalmente più corale, piano e sezione ritmica sembrano palleggiare fra loro nella prima parte di un brano che poi evolve in un cantato ancora di stampo yessista che non guasta.
Set Us Free è un po’ controverso, caratterizzato secondo molte recensioni da uno spiccato sound anni 70 ma personalmente l’ho trovato, per così dire, molto Collinsiano.
In Lay Down Your Life si cambia decisamente registro, l’intro è decisamente potente, Portnoy sembra quasi voler dare una vigorosa sterzata e anche Morse nella parte vocale deve darsi una regolata di conseguenza…in realtà la melodia è solo momentaneamente messa da parte, siamo pronti dopo un abbastanza interlocutorio Pieces Of Heaven per un finale da antologia.
Is It Really Happening? È una meraviglia autentica con una prima parte melodica dominata dalle tastiere e da un cantato con reminescenze pinkfloydiane che prelude ad una seconda parte scandita da un Portnoy scatenato che suggella un finale al limite del metal.
La chiusura è degnissima, sicuramente il momento melodico più alto del disco, dall’apertura affidata ad un pianoforte struggente ai mirabili “solo” di Roine Stolt.
Chiaramente è difficile fare graduatorie di singoli brani in un’opera di straordinaria compattezza con un riff iniziale che viene comunque richiamato più volte alla maniera delle classicissime suite degli anni 70 (non a caso il titolo del brano conclusivo è Dancing With Eternal Grace/Whirlwind Reprise) ma questa pezzo è destinato a rifulgere di luce propria nella discografia dei Transatlantic ben al di là dello specifico Whirlwind.
In conclusione un disco a parer mio significativo, non aggiunge ovviamente nulla al prog in generale ma moltissimo (ben oltre il fatto numerico) alla discografia dei Transatlantic che forse adesso davvero possono iniziare a considerarsi una band e non più un supergruppo…la differenza fra le due cose magari può sembrare non esserci ma è sostanziale…almeno a mio parere.

MASSY

La figlia di Mistral – Judith Krantz

 

Il romanzo è incentrato sulla vita di 3 donne accomunate dalla presenza di Julien Mistral, grande pittore francese, nella loro vita. La morte del pittore dà inizio alle vicende a lui legate tramite un percorso a ritroso che inizia con l’arrivo a Parigi di Maggy Lunel, una modella in cerca di lavoro presso i pittori che nei primi del 900 a Parigi erano coloro che avrebbero dato vita alla nuova arte moderna.
Maggy conosce Mistral e dopo un primo impatto non positivo, ben presto i due diventano amanti. Le loro strade si divideranno dopo una prima mostra personale dell’artista in seguito a un malinteso. Maggy conosce un altro uomo e da questi avrà una figlia Teddy. Vivono felici per qualche anno a Parigi quando lui torna negli Stati Uniti per sistemare alcuni affari però li ha un infarto e muore. Quando Maggy lo raggiunge scopre ciò che è accaduto e, dopo qualche indecisione, decide di rimanere negli Stati Uniti. Dapprima lavora come modella, poi si mette in proprio e apre un’agenzia di modelle. L’agenzia comincia a prosperare e anche la figlia Teddy inizia a lavorare come modella diventanto ben presto una delle più richieste nel mondo. Durante un suo viaggio per lavoro conosce Mistral e i due s’innamorano follemente. Da questo amore nascerà Fauve. Teddy, la mamma, morirà purtroppo nei primi mesi di vita della bambina e questa verrà affidata alla nonna. Dopo qualche anno Mistral si avvicinerà alla figlia e la inviterà a trascorrere l’estate da lui in Francia. Durante l’estate dei suoi 16 anni Fauve farà una scoperta che la porterà ad allontanarsi definitivamente dal padre, che non rivedrà più in vita. Dopo la sua morte ritornerà in Francia e li capirà definitivamente cosa davvero vuole fare nella sua vita e qual’è l’uomo che vuole sposare.

Francamente mi aspettavo il solito romanzo rosa, scorrevole e leggero. Invece mi sono trovata di fronte a un romanzo con una buona struttura narrativa, incentrato sulle vicende di 3 donne dall’inizio del Novecento fino agli anni 80. Interessante la prima parte ambientata nella Parigi degli anni 20 quando artisti come Picasso, Soutine, De Rivera e altri operavano già creando capolavori che sarebbero passati alla storia dell’arte. Affascinante quindi leggere notizie sul mercato delle opere d’arte e la presenza di intermediari per la vendita e l’allestimento delle mostre.
La Krantz omaggia le lettrici anche dando un quadro chiaro sulla moda e il lavoro che c’è dietro le modelle che siamo abituati a veder sfilare in passerella.
Buoni i personaggi. Perfetta la descrizione di Julien Mistral come il pittore genio e sregolatezza,
Un buon romanzo di sentimenti ma non stucchevole, non noioso e moderatamente avvincente in alcune parti.

Voto 7/10